Il Trato Marzo: urli e schiamazzi di tradizione

«“Trata marz su questa terra per maridar la giovane bella” e il coro diceva: “Chi èla, chi non èla?” il primo che aveva attaccato il canto allora parlava “L’è la…” aggiungeva il soprannome di una ragazza del paese. Il coro diceva: “a chi le la volente dar?” veniva ripetuto tre volte. Allora il solista replicava: “Lela dem al tale X” il quale in genere era un ubriacone: era una presa di giro. Allora tutto il coro diceva: “Totela totela totela” e questo durava anche un’ora o di più» (dall’intervista a Sergio Oliver, 28 maggio 2021, Vigo Meano)

di Francesca Corradini

In Trentino si trovano luoghi dove le tradizioni sono rimaste trattenute nel ricordo della popolazione più anziana ma, sono rare le occasioni in cui esse possono essere rivitalizzate, cosa che ha fatto cadere molte di esse in disuso.

Fra le tradizioni che persistono in alcune valli trentine, vi è quella del Trato Marzo, cioè un antico rituale di cui non si conosce in maniera certa l’origine del nome: esso potrebbe alludere all’entrata nel mese di marzo o al “contratto” di marzo, cioè la promessa di matrimonio alla quale si allude nel testo della “canzone”.

È però certo che tale usanza risale all’epoca delle calende di marzo romane dove il primo giorno di marzo corrispondeva al capodanno romuleo. In ogni caso, la denominazione può assumere lievi differenze dialettali pur non variando le procedure e gli schemi esecutivi: infatti, a Meano e dintorni gli abitanti lo chiamano Trata marz mentre a Lavis, un paese vicino a Meano situato sulle rive del fiume Avisio, è chiamato Tramarz.

Si trattava di un’occasione diffusa in tutto il Trentino che rappresentava un’opportunità di scherno ed un rito di passaggio perlopiù celebrato da giovani della stessa età e durante la quale, generalmente, una ragazza veniva accoppiata con un altro uomo: si trattava di accoppiamenti inverosimili, possibili o presunti (un vecchio, un ubriacone, un vedovo).

L’usanza nel Meanese – scomparsa fra il ’63 e il ’64 (dall’intervista a Claudia Bortolotti, 13 agosto 2021, Meano) – si svolgeva in questo modo: un gruppo di giovani si ritrovava sul colle più alto di Vigo Meano e in cima a Via del Camantolin a Meano nel corso di due o tre serate, prima per le prove ufficiali dell’intero spettacolo e poi per la recita vera e propria, durante la quale veniva acceso un grande fuoco, oppure si usava avvisare facendo precedere uno scoppio ed al calare della notte accendeva il fuoco.

Le declamazioni in strofe satiriche dovevano essere udite da tutto il paese e a grande distanza, per questo motivo in passato venivano usati megafoni di legno o imbuti per il travaso del vino.”

Dall’alto del paese, ad un certo punto, uno dei giovani dava inizio al rito gridando a squarciagola per poi essere eseguito «a più voci all’unisono, preceduto da uno scambio di battute di carattere scherzoso, in forma responsoriale (solo/tutti) che aveva essenzialmente funzione di socializzazione collettiva. Di rilievo sono le variazioni dei testi verbali […] e della melodia» (Macchiarella, 1999, p. 129) che si concludeva con fischi, urla e uno strepito di oggetti rumorosi.

Le declamazioni in strofe satiriche dovevano essere udite da tutto il paese e a grande distanza, per questo motivo in passato venivano usati megafoni di legno o imbuti per il travaso del vino. Nel libro Il rito della derisione di Marco Fincardi viene riportata una variante del “Trato marzo” degli anni Venti riscontrata nelle Basse Giudicarie, nella quale vengono descritti due gruppi di giovani su due alture speculari che cantano a botta a risposta, introdotti da un fracasso incredibile di trombe, camonelli, corni di capraio.

Uno iniziava a squarcia gola dicendo «Tratto marzo a questa terra / per maridar’ na puta bela / chi ela, chi ela? Dall’altro gruppo si rispondeva col nome o soprannome di una ragazza da marito, chiedendo se si acconsentiva. Alla risposta affermativa, si faceva il nome dello sposo, quasi sempre uno scimunito, un mentecatto o talvolta un animale, modulando con un ritornello: «Toi là / che la è ben bela; / la ga’ na stela / in mezo al cor» (Nieri, 1990, pp. 32-33).

Per la sua caratteristica sarcastica ed irriverente «nel Trentino, vari bandi dei vescovi principi di Trento tentarono nel XVI secolo di proibire il “Trato marzo”, fonte di disordini» (Fincardi, 2009, p. 52). Nonostante ciò e malgrado i divieti la tradizione si è fortemente radicata nel territorio trentino tanto da essere una delle tradizioni più vivide nella memoria della nostra popolazione.