Le miniere di Darzo. Un’epopea lunga oltre un secolo al centro della vita di un paese e di un angolo di Valle del Chiese. Un’epopea, terminata nel 2009 con la chiusura della cava di Marìgole, di cui si è fatta custode la Pro Loco di Darzo per tenere vivo il ricordo di una cultura, di un modo di essere, che ha plasmato le donne e gli uomini di questo scorcio di vallata per intere generazioni.
Già nel 2005 la Pro Loco diede avvio al progetto “La strada delle miniere”, ravvivando il paese con alcuni dipinti raffiguranti la tradizione mineraria ed i suoi protagonisti – i minör (minatori) – per dare vita ad un ideale percorso di visita per le vie di Darzo. L’iniziativa ricevette il plauso della popolazione ed attirò notevole interesse verso il valore culturale e sociale delle miniere. Questo crescente entusiasmo portò nel 2011 alla creazione dell’ Associazione di promozione sociale “La Miniera” con l’obiettivo di dare valore a un pezzo importante della storia della comunità locale, trasformando le miniere da semplice ricordo a veicolo di sviluppo non solo per Darzo, ma anche per la Valle del Chiese.
Le gallerie scavate in decenni di sacrifici, i sentieri che si arrampicano sulla montagna, le attrezzature utilizzate, i documenti ufficiali, le testimonianze orali di chi, direttamente o indirettamente, ha vissuto l’epopea della barite; tutti questi elementi possono contribuire a mantenere viva la memoria collettiva e la storia della popolazione del luogo, ma anche richiamare ospiti incuriositi da quella componente romantica tipica della miniera e dalle storie dei minatori.
Tommaso Beltrami, Vice Presidente della Pro Loco di Darzo, ci ha parlato delle miniere e del progetto di valorizzazione delle stesse avviato dalla Pro Loco.
– Tommaso, parlaci dell”oro bianco” di Darzo e della sua importanza per la comunità della zona.
Le miniere nascono nel 1884 e vengono tenute aperte fino al 2009. Sono miniere di Barite, un sasso bianco e molto pesante, che è stato chiamato nel tempo “l’oro bianco di Darzo” proprio perché ha garantito reddito e sviluppo alla parte bassa della Valle del Chiese. Partendo da un’economia di tipo alpino, votata ad allevamento e pastorizia, le miniere hanno completamente stravolto la fisionomia della zona, dando vita a centri industriali legati al contesto minerario, e permettendo lo sviluppo di un indotto nell’ambito dell’autotrasporto.
– La Pro Loco sta portando avanti un progetto di recupero delle miniere. Come è nato questo progetto? E cosa è stato fatto fino ad oggi?
Nel 2005/2006, con le miniere che stavano per chiudere, la Pro Loco ha iniziato a domandarsi cosa si poteva fare di questo patrimonio minerario così vasto per mantenerne viva la memoria. Tutto iniziò con la creazione di tre murales molto grandi all’interno del centro storico del paese che parlavano della miniera, ed il progetto si sostanziò inoltre con interviste a minatori, cernitrici, operai ed a tutti quelli che erano legati al mondo minerario. La Pro Loco ha avviato poi un percorso partecipato con più di 80 persone del paese, per appunto creare una strategia di lungo periodo.
– Vengono organizzate visite guidate all’interno del sito minerario?
Per un paese come Darzo, dove il turismo non è sviluppato, si è creduto molto nelle visite guidate e si è iniziato a portare persone a vedere queste miniere, luoghi abbandonati sotterranei, e tutte le pertinenze minerarie. Siamo molto soddisfatti. È già da qualche anno portiamo le persone alla scoperta delle miniere, e constatiamo con piacere una notevole curiosità ed interesse. Abbiamo un’ambizione: il progetto concreto di fare diventare le miniere un luogo di cultura, dove si possano passare dei piacevoli momenti scoprendo la storia mineraria, e non solo, di Darzo e della Val del Chiese.
Breve storia delle miniere di Darzo: “l’epopea mineraria”
La Barite
La barite è una pietra bianca dall’elevato peso specifico che si offre a una certa varietà di utilizzi: dagli antiruggine, alle gomme, sino a mastici ed adesivi; quella più pregiata viene impiegata quasi esclusivamente nell’industria delle vernici grazie ad apparecchiature capaci di ridurre il minerale in polvere finissima. Nel Novecento essa fu utilizzata anche per realizzare l’involucro delle forme di Gorgonzola (pratica tipicamente lombarda), come zavorra per sommergibili, per appesantire i fanghi di perforazione dei pozzi petroliferi o per realizzare le pareti per la protezione dalle radiazioni nelle sale radiologiche degli ospedali.
Gli inizi
1894. Nella memoria dei darzesi questa data significa l’inizio dell’industria mineraria locale. Tommaso Fabbri, agente dell’imprenditore della Val Camonica Giacomo Corna Pellegrini, scoprì che le viscere della montagna nei pressi di Darzo erano ricche di solfato di bario, comunemente detto “barite.” La scoperta attirò numerosi impresari che diedero l’assalto alla montagna in cerca dell’”oro bianco”. Iniziò così l’epopea che porterà alla realizzazione delle miniere di Val Cornera, Pice, Paèr, Val dai Corf; una storia destinata a durare oltre un secolo – giungendo sino al 2009 con la chiusura della cava di Marìgole – che per decenni diede lavoro agli abitanti del paese, dell’intera Valle del Chiese e dei villaggi circostanti della Valle Sabbia.
La vita in miniera
L’ammirazione che desta la figura del minatore è certamente dovuta alla grande fatica del lavoro, ad un fascino ancestrale che le viscere della terra esercitano sull’uomo ed al rischio, dovuto a crolli o alle esplosioni (in gergo dette “volate”) con cui si intaccavano i filoni di minerale. Fino agli anni Cinquanta, per preparare i fori in funzione della volata era utilizzata la rivoltella (il martello pneumatico, o fioretto) a secco: dieci kg tenuti sopra la testa per ore per perforare la parete in un ambiente saturo di polvere; poi furono introdotte le rivoltelle ad acqua che producevano meno polvere ma pesavano il doppio, ben una ventina di chilogrammi!
La miniera è per definizione luogo scuro, polveroso e pericoloso. Lampade a carburo riempivano gli ambienti di una luce fioca, ma spesso le correnti d’aria in galleria spegnevano la fiammella, facendo calare il buio. Il pericolo di caduta dei massi era sempre alto ed i “minör” non potevano fare altro che munirsi dell’”elmo”, come chiamavano il caschetto da mettere in testa, sperando di non venire colpiti da un macigno troppo grosso. Gli operai venivano ricoperti dalla polvere che ostruiva le mascherine, obbligandoli a toglierle o forarle con un ferro per poter respirare; l’aria inalata era però carica di minuscole particelle di minerale che potevano portare alla morte per silicosi, capitolo significativo e drammatico per molte famiglie del luogo che hanno perso i propri cari a causa di problemi polmonari.
Lo smarinaggio
Alla volata seguiva lo “smarinaggio”: la rimozione del materiale dal luogo dell’esplosione. Ci fu un tempo in cui il materiale veniva portato fuori dalla galleria con le carriole attraverso lunghi e tortuosi tragitti da percorrere più volte al giorno; poi arrivò il primo vagone, da spingere a mano, con capienza di otto quintali, che perlomeno dava il vantaggio di dover compiere meno viaggi. Negli anni Sessanta arrivò infine il primo locomotore a cui si potevano agganciare due o tre vagoncini.
Agli inizi del Novecento la barite era trasportata a valle mediante slitta che percorreva i canaloni scavati dall’acqua, ma i ritmi erano troppo lenti e vennero perciò costruite le prime rudimentali teleferiche che, non di rado, erano impropriamente utilizzate anche dai lavoratori come mezzo di trasporto; infine, da metà degli anni ’80 si iniziò ad introdurre il camion per il trasporto a valle del materiale.
La fase cruciale della lavorazione avveniva fabbriche del fondovalle, a Darzo, dove, nei periodi di maggiore floridezza delle aziende minerarie, lavorarono contemporaneamente oltre cento operai provenienti anche dai paesi circostanti. La barite veniva ridotta in polvere, insaccata e stoccata in sacchi da 50 chilogrammi che gli operai caricavano infine sugli autotreni.
Barite e manodopera femminile
La miniera ebbe importanti implicazioni anche per la manodopera femminile darzese: in un’epoca ben lontana dalle conquiste sociali e dai diritti civili di cui godiamo oggigiorno, le donne, dette “cernitrici”, lavoravano in fabbrica nella scelta e classificazione della barite in base alla purezza della pietra estratta. Il lavoro era logorante: le ragazze passavano intere giornate con le mani in acqua e talvolta anche i piedi, estate e inverno, poiché il minerale cernito andava prima lavato in acqua corrente. Era consueto che le ragazze appena sposate lasciassero il posto per evitare di causare problemi all’azienda in vista di potenziali gravidanze; in quel determinato periodo storico si trattava di un comportamento accettato, che apriva le porte dello stabilimento ad un’altra ragazza del paese. E che felice era la famiglia la cui figlia veniva assunta!
Cosa resta delle miniere?
Dell’epopea mineraria darzese oggi rimane la montagna bucata. Il bosco sta lentamente riprendendo il suo spazio chiudendo gli imbocchi alle miniere, mentre i binari dei vagoncini vengono ricoperti dall’erba verde. Molte miniere, come quella di Val Cornera, sono state sigillate facendo brillare l’esplosivo in quanto soggette a frequenti crolli; persino il Dos dal Macabèl, che sovrasta la cava di Val Cornera, è sprofondato assieme alle gallerie.
La miniera di Marìgole risulta invece tuttora agibile grazie al metodo di lavorazione utilizzato, la “ripiena cementata,” che ha reso sicure le gallerie ed i “fornelli”, ovvero i collegamenti fra gallerie poste su livelli diversi. Ogni galleria porta con sé un nome particolare come “Impero” o “Vittoria”, frutto della retorica trionfalistica del ventennio fascista, oppure “Santa Barbara,” protettrice dei minatori; ma anche nomi più informali e famigliari come “nonno”, “Capel da l’Oto” o “Bus dal Bepi”, dedicati alle persone che hanno fatto la storia di queste miniere e che ora tornano alla memoria grazie al lavoro degli instancabili volontari della Pro Loco di Darzo.
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